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12 e 13 Marzo 2016: A tavola                                                                                                                          di Gemma Russo & Marina Sgamato

 

 

 

Questo fine settimana, il tufo dei palazzi è ubriaco di pioggia. I gabbiani svolazzano sulla testa, garrendo insistenti. Le strade profumano di tufo e il cielo accenna a divenire azzurro. Io, sulla soglia del Sedile del Nobili, mi godo tutto questo, mentre Largo Sedile di Porta è invaso da una folla di gruppi che attendono di entrare alla mostra. Fanno foto. Immobili, poggiati al parapetto, guardano Nisida, avvolta da una luce sempre diversa. 

Ѐ metà mattina quando al Sedile dei Nobili entra un signore. Chiede di spostare la prenotazione. La cadenza è inconfondibile…sarà nato al Rione Terra?

Sì, certo! Anche mia moglie è nata al Rione Terra”, fa con un fare orgoglioso, “Abitava proprio nel palazzo De Fraja Frangipane. Ora è in macchina. La vado a chiamare”.

Dopo poco, rientrano e mi si siedono accanto. 

Mi chiamo Tozzi Angelina e ho 74 anni”, fa la signora con voce dolce, “Abitavo nel palazzo giallo. Mica era così Largo Sedile di Porta! C’era un mondo. Scaricavamo i materassi con la lana e i’svreglie. Sai cosa sono? L’involucro attorno alle spighe di mais. Si facevano prima asciugare al sole, poi si riempivano i materassi. Sotto mettevamo quelle e sopra allargavamo o’fniell. Lo vendevano attorcigliato come se fosse una treccia. Quanti animaletti si facevano dento. Poi, o’finiell lo abbiamo sostituito con la lana”. 

Quando si doveva sposare una ragazza, mettevamo le funi tutto qua fuori”, racconta, indicando con la mano Largo Sedile di Porta, “Si faceva l’appriezz’ . Si stendevano le lenzuola, le camicie, i reggiseni, gli asciugamani. Si faceva vedere la sposa cosa portava. Giocavamo a tombola. Eravamo tutti una grande famiglia”.

Questa è l’affermazione che forte emerge sempre, in tutte le chiacchierate fatte fino a questo momento. 

A Pasqua, si faceva la pastiera, il tortano e il casatiello con 24 ore di lievitazione. No, il capretto mica si mangiava. Al massimo il coniglio. Lo vedevamo una volta l’anno, mica come ora! Quando venivano le sante feste lo cucinavamo alla cacciatora. Lo portavamo a casa nascosto in una borsa. Al Rione chi mangiava coniglio era benestante. Non si doveva far sapere, altrimenti le persone mettevano gli occhi addosso. Il casatiello con 24 ore di lievitazione lo impastavamo alla sera e lo infornavamo il giorno dopo. Li cuocevamo dalla fornaia a via Pesterola. Ci mettevamo tutti seduti a terra e aspettavamo. Dividevamo il tuorlo da a’ v’lina, l’albume. Montavamo il bianco appena appena e la mettevamo sul panettone. Mia mamma la chiamavano Filumena a’ccata, perché aveva un occhio offeso. Li sfornavamo e mangiavamo a Pasqua”.

Per riconoscere la propria infornata, mettevano sopra ogni teglia ramoscelli di ulivo non benedetti, presi durante la domenica delle palme.

Ricordo che aspettavamo che le campane suonavano la Gloria per mangiare il tortano. Quando si scioglievano, ovunque eravamo, a casa o in mezzo alla strada, ci inginocchiavamo a terra per pregare. Poi, mangiavamo il tortano. Quando suonava la Gloria? A mezzanotte o alla mezza? Non mi ricordo, tu ti ricordi Procolo?”, chiede al marito che le è accanto.

Le campane ai nostri giorni si “sciolgono” intonando la Gloria circa a mezzanotte, dipende da quante letture si proclamano. Fino agli anni ’50 del ‘900, invece, si “scioglievano” tra le 12 e le 12:30 del Sabato Santo. Sarà il Concilio Vaticano II a indicare il sabato come giorno di preghiera e meditazione, in cui le chiese sono chiuse, non ci sono celebrazioni e ci si prepara per la grande veglia di sabato notte.

Alla domanda della moglie, il signor Procolo Grieco si decide a parlare e a far registrare la propria voce dal mio registratore.

Il tortano puteolano le uova le aveva dentro. Come? Se avevamo i soldi per comprare la roba da mettere dentro? Sai come si faceva? Oggi avevi cento lire? Allora compravi un pezzo di salame e lo mettevi lì. Domani avevi altre 100 lire? Compravi un pezzo di un’altra cosa. Piano piano si accumulava tutto e si utilizzava per le feste”, racconta con occhi felici, “Le strade del Rione erano profumate per l’orzo di Mamma Iana. Quando lo tostava era una meraviglia. Mangiavamo la melannurca, le rape…niente pesce. C’erano solo le tellina, ma quando le andavano a fare i figli di Pruculella. La mamma le cuoceva e le vendeva nei cup’tielli. In inverno, le castagne le vendevano intorno, tra i vicoli. Dalle 4 alle 6 della mattina, passava un carroccio che gridava  E’pall’alless   E’pall’alless. Erano belle grandi. Il latte lo vendeva Vicienz o’Vaccaro. Aveva la stalla abbasc o’centimolo. Poi, c’era Mimì che tutte le mattine veniva dalla zona delle Palazzine con la mucca. La mungeva al momento. Finito il latte, andava via. E che latte. Se venivate nelle casa in visita, trovavate il liquore strega fatto in casa. Compravamo l’essenza che allungavamo con lo spirito. Il rosolio è arrivato dopo, quando si incominciò a vedere qualche soldo ”.

Ti ricordi quando passavano tra i vicoli con in testa le ceste piene di e’cruine? Erano le ciliegie di maggio. E come erano toste. Facevamo un taglietto e poi le mettevamo sotto spirito. Ci riscaldavano in inverno. Mia mamma quando faceva freddo preparava il decotto. Melannurca, alloro, quando c’era ci metteva pure i fichi secchi. Poi faceva l’olio caldo, con cui si curavano i reumatismi e le storte”.

Già, l’olio caldo, passato con sapienza e amore. Penso che questi fossero gli elementi fondamentali grazie ai quali il dolore andasse via!

 

 

 

 

 

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Angelina Tozzi e Procolo Grieco

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