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16 e 17 gennaio 2016: O’Carere                                                                                        di Gemma Russo & Marina Sgamato

 

 

 

Sono seduta di spalle sul gradino e con il mento poggiato al davanzale della piccola finestrella. Ho gli occhi completamente pieni. Estasiati guardano in basso e non vogliono smettere di farlo. Non avrei mai immaginato di poterla vedere da quassù. Tutta la mia età, fino a questo momento, ci ho messo per vedere la chiesetta dell'Assunta da questa altezza, da questa terrazza e ora non ho parole.

Sono al Rione Terra, seduta ai piedi della piccola finestrella lungo il passaggio che dal retro del palazzo De Fraja Frangipane, conduce a largo Bastione. Sono quasi le 12 di domenica 17 gennaio e sotto mettono a posto le reti. 

Ѐ Sant’Antonio Abbate. Appena sarà notte, fuochi benaugurali s’innalzeranno nelle campagne flegree, rendendo cristiani riti un tempo pagani, di rinascita e purificazione.

L’ho visto fare anche in riva al mare una volta. Il “raccolto” si fa anche per mare. Fa freddo in questo corridoio. Intorno tutto tace. Ci sono solo io che immagino il movimento. Divengo proprio spettatrice.

Ѐ l’ora in cui sarebbero stati indaffarati a preparare tavole povere, ma oneste, in cui intorno ci si ritrovava in tanti. Si divideva il già poco cibo e lo si faceva anche senza che ci fosse alcun legame di sangue. Penso che le migliori chiacchierate si facciano mangiando insieme.

Qualche tempo fa, ne feci una molto particolare, con un pescatore. Eravamo entrambi commensali ad una tavola immaginaria, dove le portate erano rigorosamente a base di pesce.

Procolo Di Costanzo, pescatore puteolano, in quella occasione mi raccontò di quel  porticciolo chiamato Darsena o anche “O’ Valione”, ai piedi del Rione Terra, rocca tufacea su cui fu costituita, nel 194 a.C., la colonia romana di Puteoli, “porto di Roma” in età augustea. 

In quel porticciolo seicentesco, si “pescava e mangiava pesce, o poco o assai, il pesce c’era sempre. A me”, disse Procolo, “sono sempre piaciute le seppie m’buttunate con mollica di pane, uova e salame. Mia moglie Vincenza le fa ancora oggi cuocere in un sugo abbondante, che si insaporisce con la seppia e viene una cosa speciale. Quando facevo il pescatore, le seppie non mancavano mai. Buona pure la pasta, condita con quel sugo! Viene una cosa sciuarella sciuarella”. 

L’espressione “sciarella sciuarella”, pronunciata in dialetto puteolano, rese allora bene la delizia del piatto. Finimmo a parlare de “O’Carere”, antesignano povero dell’odierna zuppa di pesce. Quando eravamo in mare”, raccontò, “specialmente in estate, restavamo a mangiare sulla barca. Avevamo a poppa un cucinino di fortuna. Uno scorfano, una triglia, un manfrone, uno sbaraglione, mormora, polpo e seppia. Tutto si metteva a cuocere con aglio, prezzemolo, acqua di mare. Se c’erano, mettevamo  qualche pomodoro e pane duro”.

Ad essere cucinati, erano i pesci intrappolati nelle maglie delle reti, detti “sugati” perché i predatori divoravano a questi le interiora e ne mangiucchiavano, in generale, il corpo. Non avevano mercato, per cui venivano cucinati a bordo durante le dure giornate di lavoro. Il nome del piatto, “O’Carere”, probabilmente proveniva dal modo in cui era chiamata la pentola d’alluminio con manici scuri, utilizzata per la cottura a bordo. 

Quel piatto, lo riproducemmo nella cucina di Nicola Buono, da sempre impegnato nel recupero e nella valorizzazione di piatti della tradizione puteolana e flegrea. 

Di cosa sapeva? Di mare, quello stesso che Procolo Di Costanzo mi confidò fare “stare bene. Ѐ bello. Per me lo è stato. Mi ha permesso di portare avanti una famiglia numerosa. Nel sonno, pesco ancora. Bisogna essere svegli quando si va per  mare”.   

Un traghetto avverte che si sta avvicinando al porto. Devo tornare al Sedile dei NobiliSaluto con lo sguardo la Darsena e mi incammino, arrivando a piazzetta San Celso.

Mentre cammino lungo via Duomo intorno è tutto in silenzio. Però, il movimento ora, dopo tanti racconti, lo immagino proprio. 

Una volta Tiziano Terzani scrisse in uno dei suoi libri “Mi scopro a pensare che è un peccato che non sia nato cento anni fa e non abbia potuto arrivare qui da turista, che non abbia potuto vedere questa città ancora animata dalla sua gente anziché vuota come una conchiglia”. 

Chissà come sarebbe stata!

 

 

 

 

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O carere

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