
le GemMarine
Passeggiate degustative a quattro mani
6 e 7 febbraio 2016: La fanciullezza resta negli occhi di Gemma Russo & Marina Sgamato
Gli occhi. Sì, sono quelli a non cambiare mai e ad accompagnarci per tutta una vita. Possono velarsi per lo scorrere del tempo, ma rivelano sempre, anche solo per un “attimo”, l’indole.
Gli occhi di Angelo Mirelli, classe 1950, mentre racconta, sono quelli del bambino che scorrazzava per le strade del Rione Terra. Sono vivi. Si divertono parlando dei giochi che da bambino faceva insieme agli altri bambini del rione. Ѐ timido nel raccontare. Lo fa a tratti, ma, conoscendo la propria timidezza, si è attrezzato. Ha con sé un foglio in cui, aiutato dalla figlia, ha descritto giochi e particolari. Vuole essere preciso. Non vuole dimenticare nulla.
“Ho vissuto al Rione Terra fino a 20 anni”, spiega, “Poi, ci hanno costretti ad andare via. Mia mamma diceva sempre che neanche Mussolini era riuscito a farli andare via. Già a quei tempi si parlava di sfratto. Poi, le scosse, il bradisismo, la paura. Le notti non finivano mai. In una notte, la terra si sollevò. Non si riesce a spiegarlo a voi che non avete visto. A via Pesterola, i palazzi ai due lati del vicolo si erano inclinati. Dove abitavo io, non pagavo pigione. Erano case del Governo. Ci si arrivava scendendo a via Arco Santo Janni. C’era la piazzola, poi una palazzina sulla destra. Abitavo lì, lo chiamavano quartiere generale perché c’erano gli inglesi nel secondo dopoguerra”.
Racconta e, mentre lo fa, ho negli occhi il luogo. “Davanti alla chiesa di San Liborio, c’era una piazza. Chiamavamo quel posto abbasc’o’centimolo. Ci andavamo a giocare a pallone. Avevamo il Super Santos. Rimbalzava e ogni volta cadeva a mare. C’è lo strapiombo, lo sapete no?!”. Annuisco. Splendida è quella rampa che porta giù, fino alla chiesetta dell’Assunta. Non ti lascia scampo. Gli occhi si tingono di blu, con gradazioni di volta in volta differenti.
“Trovammo il modo per non farlo cadere a mare”, dice sorridendo, “lo sgonfiavamo. Così rimbalzava meno. Le mamme del rione sembrava si accordavano quando facevano figli. Quattro fasce d’età c’erano. I più grandi erano quelli che utilizzavano il campetto per primi, poi c’erano quelli di poco più piccoli e infine noi, quelli della mia generazione. La gerarchia era rigida. Quante volte non abbiamo potuto giocare perché la signora Bettina doveva stendere i panni”. Ride di gusto e si passa la mano sugli occhi. Erano divisi in gruppi i bambini del rione, a seconda della zona in cui abitavano. C’era una netta divisione del quartiere in quartieri. Si facevano la “guerra” tra loro.
“Dalla chiesa di San Celso”, racconta, “ci facevamo correndo tutta via Duomo, fino al Sedile dei Nobili. Bussavamo a tutte le porte, a destra e sinistra. Volete sapere una signora che faceva? Prendeva il secchio pieno d’acqua e ce lo buttava addosso o ci rincorreva con la mazza. Ogni mattina, in maniera precisa. Vuagliù, siete pronti? E correvamo spensierati”.
E quando è arrivata la televisione, cosa accadde sul rione?
“Nel ’60, pochissime famiglie la avevano. Stava una signora poco lontano casa mia che l’aveva. Ogni giorno, facevano i telefilm di Rin Tin Tin, Ivanhoe e Lancillotto. La signora prendeva 10 lire per farceli vedere. Davamo i soldi alla porta e ci faceva accomodare a terra. Finito il telefilm, andavano a giocare a Rin Tin Tin, Ivanhoe e Lancillotto”, fa con occhi contenti, “Non ci potevamo andare tutti i giorni a vedere la televisione. Al massimo due volte a settimana”.
Racconta, tra un visitatore e l’altro, tutti i giochi, quelli semplici che si tramandavano di generazione in generazione: lo strummolo; la pastora; primo monta la luna; il castello con le nocciole; lo zacché; zecca a muro; le figurine Panini.
Ѐ un’altra Storia dal Rione.
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Angelo Mirelli