
le GemMarine
Passeggiate degustative a quattro mani
19 marzo 2016- 20 marzo 2016: Apparizioni di Gemma Russo & Marina Sgamato
Le Storie dal Rione sono state frutto di mesi di condivisione di uno spazio, divenuto punto d’incontro di tanti visitatori. Non ho mai cercato una storia. Quando l’ho fatto, succedeva sempre qualche cosa per cui non riuscivo a fare l’intervista. Sono state esse a trovare il Sedile dei Nobili e l’hanno fatto sempre nei modi più curiosi e disparati. Per questo, per ogni Storia dal Rione, c’è una storia nella storia.
Questa mattina, artefice di tutto è stata la maestra Luisa Gaudino, venuta in visita alla mostra con la propria scolaresca. “Gemma, fuori c’è una signora che ha iniziato a raccontare. Abitava nel Palazzo De Fraia Frangipane”, mi ha fatto entrando al Sedile dei Nobili, “penso che ti possa interessare come storia”.
Prendo il mio registratore ed esco fuori, mentre Elena e Susy sono sommerse da visitatori da accreditare. Attraverso Largo Sedile di Porta. Ѐ pieno di sole e sulle spalle quel sole è un abbraccio stretto.
“No, non entravamo di qua. Entravamo da San Procolo”, sento dire ad una signora, con trasporto, a delle persone accanto a lei, “Era via San Procolo,16. Qua c’era l’affaccio, ma entravamo di là”. Io, in silenzio, guardo l’intera scena. “Qua in mezzo”, fa muovendosi nello spazio, facendo in questo assumere materialità alle cose, “c’erano due fontane, te lo ricordi? Aret o’viculill, noi scendevamo le scale e venivamo a sciacquare i panni. In casa, mica c’era l’acqua. In estate vicino alle fontane facevamo le passate di pomodoro. Non c’era il muretto ma le ringhiere e sopra queste mettevamo stesi i panni e le coperte. Sembrava un presepe”.
“Mi chiamo Anna Pisano e ho 66 anni”, racconta, “Vedi io abitavo proprio lì al secondo piano. Quella era la finestra della camera da letto, quella la cucina. Il balconcino era più grande, oggi lo hanno rimpicciolito. Da lì, vedevo tutta via Napoli. Era bellissimo”.
“Sì, qua sopra accumparev’n, c’erano strane presenze. Anche mio padre ha visto uno spirito. Si chiamava Nicola mio padre e faceva il calzolaio. Una sera tornava a casa con un suo amico. Mentre saliva le scale del portone dove abitavamo, vicino alla porta di casa nostra vide comparire una suora. Disse all’amico: Panzarò, questo era il contranome, vedi chi ci sta lì!? Ma io non vedo niente! Ma come non vedi ci sta una monaca. Io non la vedo, faceva Panzarotto”. Mima la scena davanti a me che osservo ammirata quella genuinità.
“Prima le porte non si chiudevano”, spiega, “Mia mamma dietro ci metteva una sedia per sicurezza. Chi tornava a casa di notte, spingeva la sedia piano piano e rientrava. Quando mio padre si avvicinò alla porta di casa, lo spirito della monaca si spostò. Per la paura spinse così forte la porta che cadde la sedia e pure mio padre con il sedere a terra. Il rumore aveva svegliato mia mamma che gli chiedeva: Nicò che è successo? Non riusciva a parlare”.
Spiriti, apparizioni. Dicono che il Rione Terra ne fosse pieno. “Molti in via Duomo hanno visto una persona che camminava con un cappuccio in testa. Lo chiamavano o’munaciell”, racconta, “Mio padre ha visto pure i cani. Erano tre che ti camminavano accanto e quando ti giravi per guardarli, sparivano. Erano anime del Purgatorio. No, non avevamo paura. Sembravano veri. Ci eravamo abituati”.
Solo questo? “No, ne ho tante di storie. Sentivamo le biglie rotolare avanti e dietro al piano di sopra e noi al piano di sopra non avevamo nessuno. E i secchi d’acqua? Camminavamo per i vicoli e sentivamo splash, sai come quando si butta un secchio d’acqua? Ma la strada era asciutta”.
Ne racconta tante, ma proprio tante tante. Non saprei dire se sono vere o meno, ma posso dire che entrando in alcuni luoghi io qualcosa di strano l’ho avvertito. Dagli spiriti passiamo ai vivi. E poiché questa storia dal Rione la sto finendo di scrivere quasi ad ora di pranzo del Giovedì Santo, vorrei non trascendere più, soddisfacendo le esigenze del palato. Saprete che a Napoli, il Giovedì Santo, era ed è giorno di zuppa di cozze. Opulenza di mare, con i gamberi, la “ranfa” di polipo, le seppie, l’olio forte. Ancora oggi, più ricca è, meglio è. Il pesce, proveniva dal Golfo di Pozzuoli. Eppure, nella piccola cittadina flegrea, così vicina a Napoli, il Giovedì Santo, la tradizione era un’altra.
Ieri sono tornata a casa e mamma aveva messo a “spurgare” i maruzzielli. “Ѐ logico, domani è Giovedì Santo”, ho detto tra me e me. Ho scavato nei miei ricordi di bambina. Mi è sempre piaciuto il Giovedì Santo, perché era giorno di festa, di felicità per le sopraggiunte vacanze pasquali. Mamma alla mattina chiamava nonna che le diceva: “ho la salsa con i maruzzielli, vieniteli a prendere”. Li ho sempre adorati. Ebbene, a casa mia, il Giovedì Santo, anche se mia nonna non c’è più, continuiamo ad acquistare e a cucinare i maruzzielli. Stamattina, però, cercavo la radice di questa tradizione e allora mi sono ricordata della famiglia Di Costanzo. Storica famiglia di pescatori puteolani, che con forza, fino alla fine, ha fatto di tutto per non vendere la propria barca, quella che avevano nella Darsena, per noi puteolani O’Valion.
Nonno Procolo, detto “Cacola”, appellativo che in puteolano significava bel ragazzo, non ricordava per bene la tradizione. A supporto del mio ricordo di bambina, è allora arrivato Nunzio Di Costanzo. “La tradizione certo che c’è. Solo che il puteolano è un po’ geloso delle sue tradizioni, le nasconde”, spiega, “poi, l’evacuazione della città non ha aiutato. I napoletani hanno acquistato le nostre case e sono diventati i nuovi puteolani. Noi per farli contenti, abbiamo acquistato le loro tradizioni, compresa la zuppa di cozze del Giovedì Santo. Ma, non è nostra tradizione”. Mi racconta una storia splendida, quasi di sfida verso la tradizione napoletana delle cozze. “I maruzzielli si pescano tra gennaio e marzo", racconta, “per cui a Pasqua, non erano così comuni, come le cozze. Ebbene, i puteolani arricchivano le loro tavole con questo frutto umile, ma raro in quel periodo, quasi come a dire ai napoletani: ti vendo il pesce che abbonda nel mio Golfo, ma tengo per me ciò che è raro”.
Ancora oggi, non è semplice trovarli al mercato. La forma a cornucopia è simbolo di abbondanza, di prosperità e di rinnovo. Si cucinano con le ultime conserve di pomodoro cannellino a “pacchetelle”, sugo generoso e abbondante. I maruzzielli, completi di conchiglie, precedentemente sbollentati, si versano nel tegame e si mischiano con la salsa. Il rumore che fanno le conchiglie è una splendida musica di sottofondo. Da non dimenticare, il pizzico di peperoncino. Con il sugo, si condiscono gli spaghetti. Ѐ un piatto bello da vedere, buono da mangiare, nostro per tradizione!
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Luisa Gaudino