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Ventennale DOC Campi Flegrei: primo incontro

 

Il tempo non promette bene, nonostante sia maggio. Ma la passeggiata si farà lo stesso. Siamo contente, entrambe abbiamo una gran voglia di terra, di filari, di racconti sull’allevamento della vite, di paesaggio flegreo

 

Le prime due cantine che andremo a visitare, per il ventennale della DOC Campi Flegrei, hanno i terrazzamenti su ciò che resta di due vulcani: Azienda agricola Agnano di Raffaele Moccia, sulle pendici del Vulcano Astroni, guardando la piana di Agnano; Azienda agricola Iovino, situata sul Monte Spina, struttura di Agnano. 

 

Scorci diversi su uno stesso territorio, variegato e ricco di biodiversità, con tante affinità e diversità.

In primis, entrambe di snodano su terrazzamenti, costruiti dalla mano dell’uomo.

Praticano il sovescio, consistente nell'interramento di apposite colture allo scopo di mantenere o aumentare la fertilità del terreno. Segno evidente di questa pratica sono, in entrambi i luoghi, la presenza tra i filari di leguminose, che arricchiscono il terreno di azoto, e di quei fiori gialli, chiamati “uoch’ e Vuoj”,

che imperano nei campi a primavera. 

 

 

Altro elemento comune, è la presenza di viti ultra centenarie, che

originariamente avevano sistemazione a “pergola puteolana”, che sono state riadattate ed indirizzate a seconda delle esigenze dell’uomo. 

La visita parte dall’azienda di Raffaele Moccia. Ci addentriamo nelle

stradine private, prive di asfalto, per raggiungere la cantina.

Da lì, ci mettiamo in cammino alla volta dei vigneti. La terra intorno

a noi è florida, piena dei colori della primavera. 

Nei prati, al di sotto delle viti, sono ancora presenti “l’uoch e vuoj”,

così chiamati per il loro centro grosso, come l’iride del bue, dal giallo deciso, e per i petali che ne ricordano le ciglia. Scaliamo le pendici del vulcano degli Astroni, fino ad arrivare al muro borbonico, che separa i vigneti dal bosco. Intorno, oltre alle viti, sono le roverelle ed i lecci a fare da padroni.

Raffaele Moccia racconta la fatica fatta nell’allevare la vite, partendo dall’ultimo terrazzamento, quello più in alto, separato dal bosco solo dal muro. 

Qui, ci sono le viti di vent’anni, basse, nonostante l’età, la cui vita è possibile grazie alla caparbietà dell’uomo. Su questo ettaro di terra, le maggiori difficoltà sono state dovute alla presenza del bosco, che sottrae nutrimento, e al fenomeno del dilavamento.

Ѐ di impatto vederlo raccontare circa il modo in cui ha fatto fronte a questi.

Il bosco da un lato ed il dilavamento dall’altro”, racconta, “le viti in estate seccavano. Allora, cosa facevo…mi caricavo secchi d’acqua al mattino, dalla 4 alle 8, con cui le innaffiavo. Questo l’ho fatto fino a quando le radici hanno attecchito, per non dare a queste uno stress idrico, che ne compromettesse la vita. Da quel momento in poi, le ho alimentate da sopra: letame di coniglio, sovescio con favino. Gradualmente e con tanta fatica, hanno assunto l’aspetto del vigneto, ma ci sono voluti più di 10 anni”. Tanto lavoro per produrre oggi solo dieci casse, sottratte con astuzia alle volpi che vivono nel bosco degli Astroni.  Lungo la strada che ci riporta alle macchine, viti di 150 anni, intrecciate come chiavi di violino, riprodotte a magliolo, tecnica mediante la quale dei tralci vengono presi dalla pianta madre e messi a dimora, generando un nuovo filare.

Ci rimettiamo in viaggio alla volta di Monte Spina. Il tempo non promette bene, ma ormai siamo completamente perse tra le viti.   

Incontriamo il signor Iovino, la cui famiglia vive questo versante del Monte, in realtà ciò che resta di un edificio vulcanico, con vista Vesuvio, dal 1892. 

L’occhio spazia a 180 gradi, dalla depressione di Agnano fino ad arrivare al mare, regalando uno scorcio di Bagnoli. 

Sul costone si vedono i palazzoni dei Camaldoli, del Vomero e parte di Posillipo. Anche qui, viti antiche, di quasi 150 anni, a piede franco perché, in terra flegrea, la fillossera non attecchì alla fine del 1800, inizi 1900. Riprodotte mediante la tecnica del “capo a frutto”.

Lattuga e fave tra i filari, anticamente a “spalliera puteolana”, riadattati perché faticosi da lavorare e da pulire. Splendido è il racconto su come sia avvenuto il riadattamento.

Abbiamo scavato dei solchi, al di sotto della viti, in cui le abbiamo calate, come se stessimo facendo l’interramento di cavi elettrici”, ci spiega il signor Iovino, “i tralci più giovani, li abbiamo legati lungo il tutore. In questo modo abbiamo ricavato viti normali ed apparentemente singole”.  Nodi lungo il tutore, che fanno storia, che significano storia. Tutto al di sotto è divento un unico apparato. Le radici si sono intrecciate con la parte aerea, in un sistema paragonabile a quello venoso. Porta linfa e non sangue. Tra i due, però, non c'è tanta differenza.

 

Sono entrambi espressioni di un organismo vivente.

Gemma Russo & Marina Sgamato

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